DIALOGO FEDE E SCIENZA Ci scrive Don Stefano, cappellano della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico ‘Carlo Besta’

DIALOGO FEDE E SCIENZA Ci scrive Don Stefano, cappellano della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico ‘Carlo Besta’

19 dicembre 2019

DIALOGO FEDE E SCIENZA Ci scrive Don Stefano, cappellano della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico ‘Carlo Besta’

Ho perso il conto delle volte in cui mi è stato chiesto il senso della presenza di un cappellano, cioè di una figura religiosa, all’interno di una struttura ospedaliera. Una recente tesi di laurea sul tema definisce il cappellano come un “mediatore antropologico di speranza”, ovvero una fessura attraverso la quale vedere nel momento presente una trascendenza, un oltre, perché no, il volto stesso di Dio. Per comprendere tale definizione credo che occorra partire dall’etimologia, dal significato della parola paziente; essa deriva dal latino patior, che significa “soffro, sono sofferente”; il paziente è dunque colui che soffre. Ora, il suo malessere deriva sicuramente dalla patologia che lo affligge, ma l’esperienza suggerisce che la sofferenza fisica non è l’unica fonte di dolore del malato; ad essa si aggiungono l’angoscia, la paura, la solitudine dinanzi a una prova che pare troppo grande per essere affrontata con le sole proprie forze. La medicina si propone la cura del malato, del paziente e, ove possibile, la remissione della malattia e la completa guarigione. E’ bene che sia così, ma non bisogna confondere la cura con la guarigione: da certe patologie non si può guarire – e lo sappiamo bene qui, al Besta – ma è sempre possibile essere curati. John Pilch, studioso statunitense di antropologia medica, in particolare nel mondo biblico, in un suo saggio sul ruolo della fede nei processi di guarigione, analizza la terminologia medica relativa alla malattia, alla cura, al ristabilimento della salute. In particolare Pilch evidenzia cinque diverse accezioni: la patologia oggettiva evidenziata mediante l’analisi medica; il vissuto soggettivo della malattia da parte del malato; la percezione di quella malattia dal punto di vista sociale (tra cui la famiglia del paziente); il processo medico finalizzato alla guarigione del paziente; il percorso di recupero di una condizione integrale di vita. A partire da una dolorosa esperienza personale (la malattia prima, e poi la morte della moglie), Pilch concentra la propria attenzione sugli ultimi due significati: se la guarigione intesa come eliminazione definitiva della patologia può verificarsi o meno, la guarigione intesa come recupero di una condizione buona, “piena”, di vita può avvenire anche a prescindere dall’efficacia della cura clinica e/o chirurgica. Così scrive: “La guarigione è la restaurazione del senso della vita. Tutte le persone, non importa quanto seria sia la loro condizione, possono pervenire a una certa risoluzione. Mia moglie venne guarita ancor prima di godere di quel periodo di regressione della malattia, ed ella visse in quello stato di guarigione per tutto il periodo della recidiva fino alla sua morte. Lei e io scoprimmo nuovi significati della vita, significati specificamente legati a questa condivisa esperienza di lotta contro la malattia, significati colti alla fine anche nel riconoscimento che la malattia avrebbe vinto”. Si colloca qui il compito del cappellano ospedaliero: aiutare a cogliere questo nuovo significato che la vita porta con sé anche in un contesto esistenziale segnato dalla fatica e dalla sofferenza, dal limite e, ultimamente, dalla morte. Preghiamo sempre che avvenga la completa guarigione di ogni malattia, ma non dimentichiamo che tutti noi, pazienti, famiglie e operatori sanitari, necessitiamo soprattutto di cura. Di acquisire cioè la consapevolezza che la nostra vita ha un senso e un valore che vanno ben oltre il suo stato di salute.

Responsabile della pubblicazione: Ufficio Stampa
Ultimo aggiornamento: 19/12/2019