ESPERENZE DI VITA – IL DOTT. FRANCESCO TARANTINI spiega la Sua esperienza agli Spedali Civili di Brescia durante l’emergenza Covid 19

ESPERENZE DI VITA – IL DOTT. FRANCESCO TARANTINI spiega la Sua esperienza agli Spedali Civili di Brescia durante l’emergenza Covid 19

13 maggio 2020

ESPERENZE DI VITA – IL DOTT. FRANCESCO TARANTINI spiega la Sua esperienza agli Spedali Civili di Brescia durante l’emergenza Covid 19

A metà gennaio, quando hanno iniziato a trapelare le prime notizie dalla Cina in merito a questa nuova malattia Covid19, sembrava che questo nuovo virus SarsCov2 non ci avrebbe mai potuto raggiungere.

In fondo non era un nostro problema, anche se in sala operatoria, sulle chat dei gruppi professionali ed interprofessionali presenti sui diversi social network, si iniziava a “scherzare” sul vecchio slogan, ripreso dal film di Bellocchio, “La Cina è vicina”, sottolineando il fatto che oggi poteva solo essersi avvicinata ancor di più rispetto al 1967.

In realtà tanti erano dubbiosi: “…ma no tranquilli, vedrete che è poco più di un’influenza … come sempre sarà un problema solo per chi ha comorbidità gravi…”.

Poi il tenore dei messaggi che giravano sulle chat inizia a cambiare, si fa sempre più presente il timore e la preoccupazione per un problema sanitario reale e concreto. Il 30 gennaio si registrano i primi due casi in Italia: una coppia di turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma. Ci rendiamo così conto che il SarsCov2 è già presente sul nostro territorio e, per chi ha un minimo di esperienza di malattie infettive e di emergenza sanitaria, è palese che di li a poco avremmo iniziato “a contare”.

Ed infatti a metà febbraio si inizia il tragico conteggio: il “Paziente 1” è di Codogno, a pochi chilometri da Milano. Ma la cosa che più colpisce tutti noi operatori sanitari è che non si tratta di un anziano con BPCO (bronco pneumopatia cronica ostruttiva n.d.r.) o altre gravi patologie respiratorie; in realtà il “Paziente 1”, che successivamente scopriremo chiamarsi Mattia, è un giovane manager di 38 anni, fisico atletico e appassionato di sport, runner e maratoneta. Questo cambia di molto la prospettiva iniziale.

Da quel momento le chat iniziano a riempirsi di domande, dubbi, paure: “…io ero in turno in PS il 18 febbraio, quando è arrivato…” “…si anch’io c’ero il 20 febbraio quando ce l’hanno portato in rianimazione…” “…dobbiamo preoccuparci?...”, “…non mi ricordo se avevamo tutti le mascherine…”.

Dopo poco abbiamo avuto un ulteriore cambio di registro nei messaggi: “…raga, ci stanno isolando…”, “…non riusciamo a tornare a casa…”, “…stiamo facendo turni massacranti…”, “…voi avete tutti mascherine e camici?...”.

Contestualmente il “contatore” ha iniziato a girare, via via sempre più velocemente. Il numero dei pazienti contagiati cresceva, e si iniziavano a contare anche i colleghi contagiati.

Ho iniziato a documentarmi su questa nuova epidemia (non era ancora stato dichiarato lo stato di pandemia), ho fatto corsi e-learning erogati dall’Istituto Superiore di Sanità, ho iniziato a leggere articoli scientifici su terapie, cure, tecniche di pronazione.

Leggere i giornali, ascoltare le notizie in radio e TV era sempre più doloroso ed angosciante.

In sala operatoria ci confrontavamo fra colleghi infermieri, anestesisti, chirurghi, e abbiamo iniziato a renderci conto che noi eravamo un’isola felice. Noi non stavamo subendo tutti i disagi che centinaia di nostri colleghi stavano vivendo in quel momento: non tornare a casa dalla propria famiglia, restare in ospedale per giorni, avere i D.P.I. (dispositivi di protezione individuale) contati e a volte neanche averli.

Spontaneamente in molti di noi è nato il desiderio di poter aiutare i colleghi in difficoltà; abbiamo quindi manifestato alla direzione dell’Istituto la disponibilità ad essere distaccati presso ospedali della Lombardia coinvolti direttamente nella gestione dei pazienti Covid19.

I giorni passavano, il contatore inesorabilmente cresceva, “la macchina” per la gestione dell’emergenza continuava a lavorare giorno e notte in Regione Lombardia.

Intanto anche da noi iniziano ad arrivare pazienti sospetti per Covid19, anche la nostra unità di crisi viene attivata.

Noi infermieri, gli anestesisti, i chirurghi, ribadiamo la nostra disponibilità – sempre compatibilmente alle esigenze interne di servizio – ad essere distaccati presso altri nosocomi in supporto ai colleghi stremati dai turni e dalla pressione psicologica nell’assistere le persone contagiate dal SarsCov2.

Sabato 21 marzo intorno alle 11.00, mentre con mia moglie e mio figlio stavamo preparando un BBQ in terrazzo, squilla il mio cellulare. Sul display appare il nome della dirigente SITRA.

“Ciao Clara, che succede?”

“Ciao Francesco, scusa se ti disturbo, sei sempre disponibile ad andare in comando presso un altro ospedale?”

“Si certo, dove serve…”

“Mi ha chiamato la Dott.ssa Lattuada per dirmi che c’è urgente bisogno agli Spedali Civili di Brescia, sono in seria difficoltà con il personale infermieristico, pensavamo di mandare in comando sia te che la collega Angela Leone.”

Mentre mi parlava, io ripetevo ad alta voce per condividere in tempo reale con mia moglie e mio figlio e avere un loro feedback.

Feedback positivo se pur sofferto, perché a quel punto si faceva concreto il mio coinvolgimento in una realtà ospedaliera particolarmente colpita dal contagio, quindi con un giustificato e comprensibile timore da parte della mia famiglia.

“Ok Clara, sono disponibile. Iniziamo già lunedì mattina?”

“…no Francesco, dovreste presentarvi a Brescia oggi pomeriggio…”

Il viaggio per Brescia è stato particolare. Percorro spesso l’A4 per andare in montagna in Val Camonica, a Ponte di Legno, ma vederla quel sabato pomeriggio completamente deserta, e dico deserta, era quasi surreale.

Ricordo ancora, e l’ho registrato perché mi aveva emozionato, che sono entrato a Brescia con la radio che trasmetteva “Eye in The Sky” dei The Alan Parsons Project.

Alle 15.45 varcavo l’ingresso degli Spedali Civili di Brescia e incontravo la Dott.ssa Loredana Affò e la collega Angela Leone arrivata poco prima.

Dopo un primo briefing informativo sulla situazione dell’ospedale in quel momento e le indicazioni per l’alloggio, ci ha accompagnato alla Tensostruttura del Pronto Soccorso, nostra prima assegnazione.

Abbiamo incontrato Fabio Arrighini e Giovanna Perone, rispettivamente coordinatore infermieristico e direttore dell’A.A.T. Brescia, che ci hanno accolto e guidato nell’inserimento all’interno dell’organizzazione del “campo”: procedure di vestizione e svestizione, area pulita vestizione, area sporca svestizione, percorso pulito, percorso sporco, rischio contagio, materiali e procedure emergenza e urgenza; li mi sono tornate in mente le parole di Aaron Mishler, collega impegnato nel 2014-2015 per l’epidemia di Ebola in Liberia: “There is no emergency in a pandemic”, ovvero non si entra in zona rossa senza aver indossato i necessari D.P.I., se tu ti ammali non potrai essere più d’aiuto a nessuno, anzi qualcuno dovrà aiutare te!

Con queste parole nella testa io e Angela abbiamo iniziato a indossare le tute da biocontenimento, tripli guanti, calzari, mascherine FFP3, visiera protettiva e siamo entrati nell’area dedicata al ricovero e all’assistenza dei pazienti.

L’immagine che ci si è presentata davanti, e che abbiamo ancora negli occhi, è stata decisamente forte, seconda solo a quella che poi avrei visto pochi giorni dopo in rianimazione Covid19+.

In quel momento nella tensostruttura c’erano oltre sessanta pazienti, la maggior parte con ossigenoterapia in venturi o reservoir, in attesa di essere valutati per un trasferimento in reparto di degenza per le cure del caso.

Quella che doveva solo essere una breve visita per vedere l’organizzazione della struttura all’interno, si è trasformata in un primo immediato turno di lavoro.

Abbiamo così iniziato a conoscere Sheila, Carla, Raffaele (Ciollo per gli amici), Gaia, Gloria, Alberto, Salvatore, Stefano, Fabio, Beppe, Maina, Elena: questi sono solo alcuni dei nomi di medici, infermieri, soccorritori, movieri, operativi H24 7/7 nella gestione della struttura di emergenza avviata in tempi rapidissimi di fronte al pronto soccorso degli Spedali Civili di Brescia. Una struttura costituita da alcune tende della protezione civile, dei camper, un capannone che fino a pochi giorni prima era utilizzato come magazzino per la biancheria della lavanderia ospedaliera convertito in un’area di osservazione del pronto soccorso, in grado di accogliere e dare una prima assistenza ad oltre 75 pazienti.

Dopo qualche giorno mi è stato chiesto di coprire alcuni turni nei reparti di rianimazione Covid19+ in sofferenza per le assenze di alcuni colleghi risultati positivi al tampone.

Qui ho avuto modo di vedere e vivere in prima persona la fatica fisica e psicologica dei colleghi impegnati da settimane nelle rianimazioni, colleghi magari appena rientrati da un mese di assenza per essersi ammalati di Covid-19 assistendo i pazienti: Laura, Marco, Manuel, Isa, Silvia, e tanti altri che mi hanno accolto e guidato in questa nuova esperienza.

Ma soprattutto ho toccato con mano la fatica e il dolore dei pazienti ricoverati da giorni in rianimazione: pazienti tracheotomizzati, pazienti intubati e tenuti in coma farmacologico per effettuare manovre di pronazione o per poterli sottoporre ad ECMO (ossigenazione extra corporea a membrana).

È stato in questa occasione che, con Laura, abbiamo visto comparire la gioia negli occhi di Claudio S., tracheotomizzato in rianimazione Covid-6, quando sullo schermo del mio cellulare sono apparsi moglie e figli e, pur non potendo parlare, ha potuto salutarli con gli occhi lucidi e con i gesti faticosi delle braccia. E io non sono riuscito a trattenere le mie lacrime di gioia e commozione.

Io e Angela, come tutti gli altri colleghi impegnati da settimane in ospedali e città diverse dalle proprie, abbiamo lasciato a Milano la famiglia, soli con la preoccupazione continua che noi potessimo essere una delle prossime vittime fra il personale sanitario, uno dei "tanti numeri" che quotidianamente, più volte al giorno, anzi quasi in un flusso continuo, venivano comunicati in ogni tipo di programma televisivo, conferenza stampa, telegiornale, notiziario radio.

Il nostro pensiero quotidiano era per loro: Daniela, mia moglie, la donna che da sempre mi è accanto e che ha vissuto quotidianamente, ora per ora, questa preoccupazione, e Andrea, il compagno di Angela, anche lui infermiere in un reparto Covid19+ di un ospedale milanese. Questa esperienza ha cambiato il modo di vivere e di pensare di tutti, ci ha fatto crescere professionalmente e migliorare umanamente.

Abbiamo festeggiato la Santa Pasqua 2020 non con le nostre famiglie ma con i nostri colleghi in Tensostruttura, una Pasqua che rimarrà per sempre nei nostri cuori, nei nostri occhi, nei nostri ricordi.

Siamo arrivati a Brescia il 21 marzo, in una città a noi sconosciuta, per la quale ci era stato chiesto di allontanarci dalle nostre famiglie di punto in bianco, non sapendo dove saremmo andati e cosa avremmo dovuto fare.

Avrebbero potuto dirci di andare in qualsiasi altra città, sarebbe stato assolutamente indifferente: eravamo partiti solo per il senso del dovere, per il desiderio di aiutare,

Rientrati a Milano, dalle nostre famiglie, dai nostri affetti, ci siamo accorti che un pezzo del nostro cuore era rimasto a Brescia, custodito in ogni sguardo fiero, in ogni mano forte e tesa per aiutare e per accettare il nostro aiuto se pur minimo, fuso nel cuore di ogni paziente, di ogni infermiere, soccorritore, medico, moviere, volontario che abbiamo incrociato in quei giorni e in quelle notti trascorsi agli Spedali Civili di Brescia.

In tanti ci hanno ringraziato per il servizio reso, ma in realtà noi ringraziamo tutti per le emozioni, il calore, l’esperienza e il supporto ricevuto.

Grazie Brescia, grazie Amici bresciani, ma soprattutto grazie alla Direzione dell’Istituto Besta per averci permesso di vivere questa esperienza.

 

Dott. Francesco Tarantini

Responsabile della pubblicazione: Ufficio Stampa
Ultimo aggiornamento: 13/05/2020