GIORNATA MONDIALE DELL’ALZHEIMER
GIORNATA MONDIALE DELL’ALZHEIMER
23 settembre 2024

La malattia di Alzheimer è la forma più diffusa di demenza. Secondo i dati dell’Osservatorio delle demenze, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, solo in Italia soffrono di Alzheimer oltre 600 mila anziani, ma il numero è in costante aumento. Oggi, grazie ai progressi della ricerca scientifica, si è in grado di riconoscerla e di diagnosticarla più velocemente rispetto al passato, ma non si è ancora in grado di curarla in modo efficace nonostante gli sforzi costanti da parte della comunità scientifica internazionale e le ingenti risorse economiche destinate alla ricerca scientifica. Non esiste ad oggi un farmaco in grado di bloccare la malattia, e anche le strategie terapeutiche più avanzate basate sull’uso di anticorpi monoclonali diretti contro la proteina beta-amiloide – tra quelle responsabili della malattia – hanno dato finora risultati ancora poco soddisfacenti e controversi.
Abbiamo chiesto al Dottor Giuseppe di Fede, neurologo responsabile del Laboratorio di Genetica e Biochimica delle Demenze dell’Istituto Besta in quali direzioni si muovendo la ricerca.
Il nostro Istituto è in prima linea nella ricerca dedicata a questa malattia e si possono evidenziare tre distinte aree di studio. La prima è orientata verso lo studio dei meccanismi molecolari che causano la malattia. Anche se la conoscenza della patogenesi dell’Alzheimer ha fatto grandi passi in avanti, non è ancora completa. Si tratta di un campo d’indagine che riveste una grande importanza perché potrebbe portare all’individuazione di potenziali bersagli molecolari verso i quali indirizzare poi gli approcci terapeutici più innovativi ed efficaci. Un altro filone di ricerca è dedicato allo studio di biomarcatori che consentono di intercettare e di riconoscere la malattia nelle sue fasi più precoci. Stiamo cercando di studiare dei biomarcatori che siano meno invasivi poiché attualmente, quelli più efficaci, sono quelli che si possono ottenere dallo studio del liquor tramite puntura lombare. I nostri laboratori sono impegnati nella ricerca di biomarcatori efficaci in fluidi biologici più facilmente accessibili con procedure poco invasive come ad esempio il sangue. Riguardo la ricerca di strategie terapeutiche più efficaci, stiamo valutando una molecola che presenta un profilo interessante. Si tratta di un piccolo frammento proteico derivante da una variante genetica protettiva per la malattia di Alzheimer che era stata identificata nei laboratori dell’Istituto Besta alcuni anni fa. Questo piccolo peptide si è dimostrato efficace nel contrastare la malattia di Alzheimer nei modelli animali, grazie al suo particolare meccanismo d'azione diretto verso bersagli molecolari multipli della malattia (beta-amiloide, tau, etc....). Attualmente stiamo lavorando per poter arrivare ad una sperimentazione di questo approccio terapeutico sull’uomo.
Quali sono i tempi per arrivare alla traslazione sull’uomo?
Traslare la terapia dall’animale all’uomo è un processo che richiede anni. Abbiamo fatto diversi passi in avanti in questa direzione, ma ne occorrono altri. Ad esempio stiamo studiando quale sia la modalità di somministrazione più favorevole. Un aspetto molto innovativo di questo approccio è che questa molecola è stata utilizzata nel modello animale per via intranasale: una via di somministrazione molto più semplice rispetto a quella per gli anticorpi monoclonali che richiedono fleboclisi periodiche. Questo tipo di terapia, invece, potrebbe essere fatta a casa direttamente dal paziente con minori difficoltà organizzative e di gestione anche da parte della struttura ospedaliera. Attualmente stiamo anche verificando quali potrebbero essere i dosaggi e la posologia equivalente nell’uomo rispetto a quella che utilizzata nel modello animale. Occorre inoltre analizzare più approfonditamente i fenomeni di tossicità che nel modello animale non abbiamo riscontrato, ma che vanno verificati in modo più dettagliato prima di arrivare a testare la molecola nell’uomo.
Quanto è importante effettuare una diagnosi precoce?
L’esperienza con gli anticorpi monoclonali ci ha insegnato che gli interventi terapeutici sono tanto più efficaci quanto più precoci. Ma naturalmente questo comporta la capacità di riconoscere la malattia nelle sue fasi iniziali. Il fatto che si tratti di una malattia neurodegenerativa vincola gli interventi terapeutici alle fasi più precoci poiché, nelle fasi più avanzate, il tessuto cerebrale è danneggiato in modo irreversibile. L’idea di base, quindi, è quella di intervenire quando ancora non è in atto l’irreversibilità del danno.
Quali sono i campanelli di allarme dell’insorgere della malattia?
I campanelli d’allarme sono legati alle difficoltà di tipo cognitivo in cui l’esordio più frequente è sicuramente il disturbo di memoria. Questo però non vuol dire che, ogni volta che una persona ha un disturbo di memoria, bisogna pensare alla malattia di Alzheimer o più in generale alle demenze, perché le cause dei disturbi di memoria sono molteplici e coinvolgono patologie diverse che vanno differenziate e riconosciute attraverso l’esecuzione di esami particolari. L’Alzheimer è una malattia molto eterogenea, per cui le presentazioni cliniche della malattia possono essere anche molto diverse dal disturbo di memoria che comunque nell’85% dei casi rappresenta il sintomo di esordio. Più la malattia progredisce dal punto di vista biologico, più il corteo di sintomi si allarga. Per cui alla perdita di memoria si può associare un disturbo del linguaggio, dell’orientamento nel tempo e nello spazio, o un disturbo legato alle capacità di calcolo, e ad altri sintomi che hanno un impatto funzionale nella vita quotidiana e di relazione del paziente.
L’Alzheimer è una malattia ereditaria?
Le forme veramente ereditarie, e cioè causate dalla presenza di mutazioni vere e proprie di geni presenti nel DNA, rappresentano circa l’1% del totale. In questi casi il sospetto può nascere dal fatto che in famiglia si sono verificati casi in cui l’insorgenza della malattia è iniziata in fase pre-senile. Quando si verificano queste condizioni si possono fare approfondimenti in laboratorio per determinare se la malattia è legata a una mutazione genetica. Il fatto di avere in famiglia più casi con questa malattia, che però si sono verificati dopo il 60-65 anni non fa nascere automaticamente il sospetto di una forma genetica. L’Alzheimer è una malattia legata all’invecchiamento che rimane sempre il principale fattore di rischio.
Cosa si aspetta per il futuro?
La speranza dei ricercatori è che a un certo punto si arrivi a poter vivere in un mondo nuovo, un mondo in cui l’Alzheimer sia finalmente una malattia curabile.