Intervista al Direttore Sanitario, Giuseppe De Filippis

Intervista al Direttore Sanitario, Giuseppe De Filippis

09 novembre 2020

Intervista al Direttore Sanitario, Giuseppe De Filippis

È Direttore Sanitario della Fondazione I.R.C.C.S. Istituto Neurologico Carlo Besta dallo scorso 1° settembre, quando ha preso il posto della Dottoressa Anna Pavan, andata in pensione. 
Giuseppe De Filippis, laurea in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Torino e specializzazione, sempre a Torino, in Igiene e Medicina Preventiva con indirizzo in organizzazione dei servizi ospedalieri, è arrivato all’Istituto Besta dopo essere stato al vertice di direzioni sanitarie di Aziende Sanitarie pubbliche di varie regioni (Piemonte, Valle d’Aosta e Lombardia) sia territoriali (ASL) Locali sia Ospedaliere (AO/ASST) come il Sacco qui a Milano, da dove ha affrontato la prima fase dell’emergenza Coronavirus.

«È la prima esperienza in un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico» dice il Direttore De Filippis. «La prima peculiarità, dal mio punto di vista, di una realtà come la nostra rispetto a tutte le altre nelle quali ho lavorato la ritrovo di certo nella missione che ci è affidata: investire nella ricerca traslazionale, orientata sempre a trasformare i risultati della ricerca di base in applicazioni cliniche. Anche le aziende sanitarie nelle quali ho lavorato potevano decidere di investire in questo campo, ma non lo avevano come mandato istituzionale. Ed è molto diverso». 

Altre peculiarità? «Un altro aspetto centrale, che differenzia il nostro istituto da altre realtà, è la mono-specialità, nel nostro caso nel campo delle malattie del sistema nervoso nell’adulto e nel bambino. L’essere eccellenza in un settore spinge la Fondazione a dover fare rete e a dover essere in rete con altri I.R.C.C.S., enti di ricerca, aziende ospedaliere, strutture territoriali “generalistiche” sia per progredire nella ricerca scientifica sia per garantire ai pazienti cura e assistenza a trecentosessanta gradi».

Una necessità che spinge, in un certo senso, l’Istituto Besta ad andare oltre quanto formalmente disposto dalla legge regionale lombarda del 2015, la numero 23, che ha modificato il Testo Unico delle leggi regionali in materia di sanità. «Prendendo alla lettera questa norma vediamo che gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico non sono formalmente ricompresi nella rete di assistenza e presa in carico del paziente a livello territoriale. Ma questo, e lo si dimostra ogni giorno qui, non significa che non venga fatto».
Anche perché, sottolinea De Filippis, forse ancora di più quando si parla di patologie che investono il sistema nervoso o di malattie rare, fare parte della rete che accompagna il paziente e i suoi familiari lungo il percorso terapeutico è imprescindibile. E con questa consapevolezza si sta continuando a lavorare per trovare il migliore equilibrio possibile tra minimizzazione del rischio di contagio da Coronavirus e continuità nella cura e assistenza.

«Durante la prima ondata di questa emergenza, anche in Lombardia abbiamo riorganizzato la rete ospedaliera, e l’Istituto Besta, su disposizione regionale, è stato inserito a tutti gli effetti nella rete territoriale e indicato quale “hub” per le urgenze neurochirurgiche, consentendo anche alle equipe di altri ospedali lombardi presso i quali era stata sospesa questa tipologia di operazioni di poterle ugualmente effettuare, con evidenti benefici per i pazienti che sono stati sempre seguiti. Oggi, guardando in prospettiva verso i prossimi mesi, l’intero sistema sanitario sta chiedendo a coloro che devono prendere decisioni cruciali di non bloccare nuovamente i servizi assistenziali per le patologie “non Covid”, ma di replicare ed estendere il modello “ad hub” della prima fase anche ad altre patologie. Oggi ancora di più serve, infatti, dare certezza a tutti di poter rispondere alle richieste dei pazienti».

Uno sforzo per contemperare la richiesta di salute del paziente con il rischio di esporlo a possibilità di contagio, non tanto all’interno della struttura ospedaliera dove i percorsi sicuri sono ben definiti, quanto piuttosto negli spostamenti per raggiungere l’Istituto. Un rischio che, in molte situazioni, il ricorso alla telemedicina può decisamente abbassare senza perdere in efficacia terapeutica. 

«Oggi la telemedicina è diventata centrale, ma viene vissuta in modi molto diversi sia dai pazienti sia dagli operatori sanitari. Alcuni vi ricorrono in modo convinto, altri con più difficoltà. Per far sì che rimanga una vera risorsa anche passata, speriamo il prima possibile, questa fase particolarmente critica, dobbiamo fare tutti insieme un salto culturale, accompagnati dalla giusta dose di formazione sugli strumenti e delle possibilità che la ricerca e la tecnologia mettono sul tavolo anche in questo settore. Abbandonando l’approccio del “o tutto o nulla”, dobbiamo riuscire ad apprezzarne le potenzialità per migliorare ancora di più il nostro ruolo e il nostro rapporto con i pazienti. È evidente che continueranno a esserci dei momenti, delle situazioni, delle fasi diagnostiche e terapeutiche nelle quali l’incontro di persona tra malato (e suoi familiari) e medico sarà indispensabile. Ma ci sono e ci saranno delle situazioni – ancora di più se pensiamo che in una realità come la nostra circa il 55% dei ricoverati negli ultimi anni è venuto da fuori Lombardia – nelle quali la tecnologia non allontanerà ma, al contrario, aiuterà ancora di più a stringere il rapporto tra professionista e paziente. Non ci sarà una regola unica valida per tutti e per tutte le situazioni; sarà compito del singolo medico, conoscendo da una parte il proprio paziente e dall’altra la strumentazione a sua disposizione, valutare la modalità più appropriata di rapporto con interazione con il paziente».

Responsabile della pubblicazione: Ufficio Stampa
Ultimo aggiornamento: 09/11/2020