LA “MEDICINA DI GENERE”: PRIMA E OLTRE COVID-19
LA “MEDICINA DI GENERE”: PRIMA E OLTRE COVID-19
01 marzo 2021

“Applicazione e diffusione della medicina di genere nel Servizio sanitario nazionale”. È il titolo dell’articolo 3 della legge 11 gennaio 2018, n. 3, quello nel quale per la prima volta in Italia compare, in una norma primaria, questo tema, quello a seguito del quale il 13 giugno 2019 è stato approvato dall’allora ministro della Salute il Piano “volto alla diffusione della medicina di genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale in modo omogeneo sul territorio nazionale”.
L’idea della medicina di genere è comparsa per la prima volta negli Stati Uniti negli anni Ottanta, in ambito cardiologico. Primario oggetto di analisi era stato l’infarto: convinzione comune era che si trattasse di una patologia tipicamente maschile, mentre si osservò quanto colpisse anche le donne, soprattutto dopo la menopausa, e in una forma più grave. La presentazione clinica era diversa: nelle donne i primi sintomi dell’infarto possono dare un forte mal di schiena, anche dolori confondibili con problemi digestivi, con il risultato che spesso venivano confusi con stati d’ansia e molte di coloro che si presentavano al pronto soccorso venivano dimesse con la prescrizione di un tranquillante.
Si iniziò, così, ad approfondire la tematica e ben presto si capì che, se da un lato, la medicina si basava – e si basa ancora oggi – sul modello maschile per tanti motivi (non ultimo il fatto che le donne hanno cambiamenti dell’assetto ormonale non solo nelle diverse fasce di età, ma all’interno dello stesso mese, un elemento che deve essere considerato, anche economicamente, quando si pensa a trial con il loro arruolamento), dall’altro lato, spingendo sempre di più verso una medicina “personalizzata”, il primo passaggio da fare è partire dalle differenze che uomini e donne hanno nella fase di prevenzione per le diverse patologie, nella diversa risposta a vaccinazioni, uso di farmaci, protocolli terapeutici.
“Medicina di genere” non significa “qualcosa che interessa le donne”, come spesso si è tentati di pensare, ma un nuovo approccio dal quale tutti, e ciascuno, traggono vantaggio. Il concetto, così come oggi lo promuove anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si basa sull’idea che le differenze tra uomini e donne in termini di salute siano legate sia alla loro caratterizzazione biologica e alla funzione riproduttiva, sia a fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali definiti dal termine “genere”.
L’Italia, spesso criticata, su questo tema non è rimasta indietro. Molto stanno facendo Ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità, promuovendo tavoli di lavoro tra cui anche quello nazionale che coinvolge tutti gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico. È stato proprio all’interno di questo tavolo che si è deciso, nei primi mesi di questa pandemia, di analizzare in un’ottica di genere il Covid-19. Un lavoro i cui primi risultati sono stati raccolti nel volume 2 del 2020 delle Bussole IRCCS (in corso di aggiornamento con i risultati dei follow up), prodotto dal ministero della Salute, con il titolo “Medicina di genere e Covid-19”, per il quale ho coordinato i lavori relativi alla sezione “La patologia COVID-19, la comorbidità e il genere. Aspetti neurologici”.
Da subito, infatti, le evidenze cliniche sono state molto chiare: esiste una differenza di genere nel modo in cui Sars-Cov2 infetta e colpisce.
L’ingresso del virus Sars-Cov2 nella cellula ospite, essenziale per la sopravvivenza e la propagazione del virus stesso, avviene grazie al legame che si crea tra la proteina Spike esposta sulla superficie del virus e il recettore dell’ospite, la proteina ACE2. Una volta che si crea il legame tra proteina Spike e ACE2, il trasporto all’interno della cellula da infettare avviene grazie alla proteina, sempre dell’ospite, TMPRSS2.
Ecco alcuni elementi che segnalano quanto un approccio da “medicina di genere” sia fondamentale per capire sempre di più e sempre meglio, non solo per questa specifica situazione. Primo: l’espressione e l’attività di ACE2 può cambiare in funzione del sesso. ACE2 è sintetizzata in un gene che è presente sul cromosoma X, ma in una regione che sfugge all’inattivazione del cromosoma X (avendo le donne due cromosomi X, per evitare che i geni vengano sovra-espressi, si dice che uno dei due cromosomi X viene silenziato), generando un dosaggio genico potenzialmente sbilanciato tra i due sessi. Secondo: TMPRSS2, il trasportatore all’interno della cellula ospite del legame Spike-ACE2, è un noto gene direttamente regolato dagli androgeni. Terzo: molti geni che contribuiscono ad attivare il sistema immunitario sono sul cromosoma X.
Che il sesso sia una variabile biologica che incide profondamente sulla risposta immunitaria lo si era osservato già in precedenti epidemie da coronavirus, come quella della Sars del 2002-2004. Come scritto nel volume Bussole “gli uomini mostrano maggiore prevalenza e gravità di infezioni batteriche, virali e parassitiche, mentre le donne reagiscono con una risposta più vigorosa ed efficace sia alle infezioni che ai vaccini. Nelle precedenti epidemie da coronavirus gli uomini avevano un tasso di letalità nettamente superiore a quello delle donne. Anche nel caso di infezioni da SARS-Co-V2 i dati attualmente disponibili mostrano una minore incidenza di casi gravi e di mortalità tra le donne. Al miglior esito delle infezioni osservato nelle donne contribuiscono sia la risposta immunitaria innata, immediata e aspecifica, sia la risposta adattativa con la produzione di anticorpi e la generazione di linfociti della memoria”.
Nonostante questo, però, al momento continuano a essere poche le pubblicazioni su Covid-19 che vanno a valutare le differenze di genere. È un approccio, un meccanismo di analisi, osservazione, studio, ricerca ancora poco automatico che, però, andrebbe sempre più e sempre meglio incoraggiato.
Barbara Garavaglia
Referente della Fondazione I.R.C.C.S. Istituto Neurologico "Carlo Besta" presso il tavolo costituito da Regione Lombardia per l’applicazione
del "Piano Nazionale per la diffusione della medicina di genere" e presso il tavolo nazionale degli I.R.C.C.S. sulla medicina di genere